L’esperienza dell’emigrazione è un processo complesso le cui ripercussioni continuano per tutta la vita e spesso segnano anche le generazioni successive. Non si può completamente controllare né prevedere come questa esperienza influirà sull’individuo. Molto dipende dalla condizione psicologica e socio-economica del migrante, da ciò che ha lasciato e dall’accoglienza che riceve e dalle prospettive che gli si aprono nel paese di residenza.
Dal punto di vista psicologico: Il migrante è sufficientemente maturo e autonomo da poter sopportare e anche giovarsi da una separazione radicale dai propri cari e dal mondo in cui è cresciuto? Ha un’autostima ben ancorata o fluttuante?
Dal punto di vista economico e sociale: Proviene da un paese ricco e potente o da uno povero e in sfacelo? Quali sono le relazioni e le dinamiche di potere fra il paese d’origine e quello ospitante? Quale posizione occupa il migrante nel contesto di origine? Parte perché nel paese di origine è marginalizzato? Sono condizioni di indigenza e malessere che lo forzano a partire? Scappa da una situazione pericolosa e insostenibile? O ha un contratto di lavoro, una scuola o un matrimonio desiderato che lo porta a partire?
Ci sono pazienti che vengono da condizioni socio-economiche privilegiate in Italia e con buona autostima e facilmente si integrano. Altri hanno difficoltà, perché l’alto valore sociale e culturale che mantengono nel paese d’origine non è facilmente traducibile. Ci sono individui che si vergognano a parlare in inglese perché il livello di competenza linguistica è inferiore a quello della lingua materna. Spesso le persone che provengono da un contesto interno marginalizzante (per esempio hanno un accento stigmatizzante (come quello del Sud o della Sardegna) rompono gli equilibri marginalizzanti d’origine negli States, perché l’accoglienza nel nuovo paese ignora queste differenze regionali e l’accoglienza per gli Italiani è generalmente buona in questo momento storico, a differenza di ciò che capita per i Latini.
Nel mio lavoro con emigrati latini e asiatici anni fa nella clinica Western Queens Consultation Center nel Queens, NY, sono venuta a conoscenza di storie di precarietà, vulnerabilità e marginalizzazione esasperate dovute anche alla mancanza di competenze di lingua Inglese e a una mancanza di riconoscimento negli States di titoli scolastici e esperienze professionali preesistenti. In tale situazione di malessere la terapia poteva offrire un po’ di sollievo ma oggettivamente non poteva cambiare situazioni di disagio sociale ed economico che contribuivano a uno stato di disperazione e collasso psicologico che a volte rendevano difficile anche il mantenimento di un appuntamento terapeutico settimanale.
Nel mio studio privato lavoro soprattutto con persone che hanno avuto condizioni di emigrazione più fortunate: studenti, professionisti, o persone che seguono il proprio partner negli States. Quando si parte con un progetto o per coronare un sogno di vita, si può vivere una fase di “luna di miele” con gli Stati Uniti; ma anche in tali situazioni di privilegio, generalmente una fase di assestamento e culture shock è inevitabile.
Una volta che la “luna di miele” finisce, ci si scontra con costumi diversi, con le concezioni diverse dell’individuo, del lavoro, delle relazioni, dello spazio, e del tempo. È naturale assumere una posizione etnocentrica all’inizio e trovare i comportamenti degli altri rudi e inopportuni. È naturale avere un po’ di nostalgia e sentirsi soli e non in sintonia con gli altri; è naturale sentirsi diversi e perdere un po’ della stima in sé stessi. A questo riguardo è esperienza comune che le proprie competenze e punti forza non siano immediatamente trasferibili nel nuovo paese.
Una volta risolto il culture shock, l’individuo comincia ad adattarsi e sviluppare e riconoscere i propri lati ibridi. Quando la persona si adatta alla vita nel paese di residenza l’idealizzazione per il paese d’origine non è tanto prevalente. La nostalgia forte è un indice di crisi. Isolarsi in un gruppo chiuso di connazionali non è ideale, ma mantenere contatti fluidi con gruppi di connazionali emigrati è invece un elemento positivo di ricarica emotiva e culturale, un punto di mutuo soccorso e arricchimento, e un trampolino di lancio. In una situazione ottimale, si dà valore e si mantengono aspetti della cultura di origine e di quella di residenza.
Ma anche nello scenario migliore nuove esperienze complesse e difficoltà continuano a presentarsi, per esempio, come intrecciare relazioni romantiche e professionali interculturali, avere figli che sono così immersi nella cultura americana che non rispecchiano affatto i valori dei genitori, o l’esperienza di provare una crescente lontananza culturale e spirito critico per le scelte di vita dei propri genitori, familiari, e connazionali in Italia, una volta che la persona emigrata acquisisce molti dei dei valori del nuovo paese.